Capitolo XXI
(trascrizione
a cura di Giovanni Lo Presti, Salvatore Salmeri e Massimo Tricamo)
17 dicembre 1719
A causa della presenza di truppe spagnole in
prossimità di Pozzo di Gotto, il giudice penale della stessa Pozzo di Gotto Domenico
Lucifero rimane ben nascosto per sfuggire alla cattura, a differenza del
collega Antonino Proto e Abbati che abbandona S. Lucia del Mela per mettersi in
salvo
17 decembre. S’ebbe notizia veridica che li Spagnuoli, avendosi raccolto in più
truppe, s’accostarono in questo territorio, avendosi fatto a vedere vicino la
città di Puzzo di Gotto. Perloché il signor Don Domenico Lucifero, che si
ritrovava capitano di giustizia [giudice
penale, ndr] in detta città, volea retirarsi in questa [città di Milazzo].
Ma per aver molti paesani amici fu da questi nascosto in un convento; ed [inoltre
fu r]assicurato che tutte le volte avessero venuto gli Spagnuoli pure
l’avrebbero sepolto in luoco non pratticato per non farlo ritrovare. Ma il
signor Don Antonino Proto ed Abbati, capitano di giustizia nella città di Santa
Lucia, qual da pochi giorni s’avea conferito in quella città, per evitare ogni
periglio se ne venne in questa sua Patria.
18 dicembre 1719
Rocambolesca fuga di un disertore spagnolo 18 decembre.
Desertò dalle truppe spagnuole ritrovate in questa Comarca un loro soldato di
cavallo. Raccontò aver molto sofferto per la strada, poiché scoverto nella fuga.
Li furono disparate molte scopettate, con aver bensì rimasto illeso. Ed inoltre
molti villani della Comarca pretendevano sopprenderlo per condurlo alle sue
truppe o per dell’intutto spogliarlo, ma evitò ogni periglio, tanto che si
retirò in questa [città]. E richiesto se volea prender partito [se voleva arruolarsi con gli Imperiali,
ndr], non volse accettarlo, perloché - venduto il cavallo coll’arme - si diede
l’imbarco come gli altri per Calabria.
19 dicembre 1719
Mentre alcuni milazzesi tornano da Pozzo di Gotto, ove
si erano recati per vendere vino, le truppe spagnole attaccano alcuni militari
imperiali di cavalleria, imprigionandone alcuni. Molte imbarcazioni, provenienti da Messina
e cariche di truppe imperiali di cavalleria e fanteria, si dirigono verso Palermo per conquistarla e mettere
in fuga gli Spagnoli 19 decembre. In questo giorno - retornando alcuni
poveretti plebei di questa città da quella di Puzzo di Gotto, conferiti[si] in
quella con li loro balduini per condurre alcune some di vino comprate (volendo
provecciarsi colla vendita a caro prezzo), e ritrovandosi per la strada vicino
detta città, nel suo territorio nella contrada dell’Acquacalda - uscirono molte
truppe spagnuole ed assaltarono alcuni soldati di cavallo della nazione tudesca.
Li quali, vedendosi non puoter resistere per la molta quantità delli nemici, si
diedero alla fuga verso questa città. Ed incalzati a scopettate, alcuni
scamparono correndo, alcuni restarono feriti e tredeci fatti prigionieri. E
detti poveretti, benché visti ed osservati dalli spagnuoli, non furono offesi,
anzi lasciati liberi. Il che s’attribuì
a portento, poiché gli Spagnuoli andavano scorrendo in questo territorio per
aver campo.
Nel medemo
giorno passarono sopra il Capo di questa [città] molt’imbarcazioni e navi e
vasselli, tartane ed altri, usciti dalla città di Messina. E si condussero per
il golfo verso Palermo. Si disse esser tutti carichi di truppe tudesche - e di
cavalleria e di infanteria - quasi un corpo d’armata, per ritrovare gli
Spagnuoli. E dell’intutto debellarli con la fuga e per impossessarsi di detta
città di Palermo.
20 e 21 dicembre 1719
Prosegue la carestia, mancando qualsiasi alimento 20, 21 decembre.
Non si vidde più di questi giorni derelitta la città, con molta penuaria [penuria, ndr], non ritrovandosi più pane. E se in altri giorni
almeno si dispensavano grana due di pane per testa (in onze quattro e mezza) di
malissima qualità e fetido, allora nemeno si puoté conseguire questa minima
porzione da tutti, avendo rimasto molti - ancorché cittadini di mediocre
condizione - senza tal parte. Ed il peggio era che nemeno gli poveri abitatori
si puoteano trattenere per non morire di fame con biade, legumi, riso,
biscotto, pasta o almeno con erbe, per essere mancante la città d’ogni sorte di
vettovaglie e viveri.
22 dicembre 1719
Gli amministratori comunali di Castroreale chiedono
di essere ricevuti dalla massima autorità militare di Milazzo per giurare
fedeltà alla corona imperiale 22 decembre. Non prima di questo giorno
si fecero a vedere in questa città li giurati di quella del Castroreale,
presentandosi innanzi il signor comandante della Piazza per rendersi
all’obedienza dell’arme di Sua Maestà Cesarea Cattolica. Bensì furono trattati
conforme meritavano, avendosi proibita l’udienza per insino la sera. Alla fine,
raccontando molte dicerie (per non dir bugie), [ossia] che non aveano possuto
conferirsi più innanzi a causa che giornalmente erano vessati da molte truppe spagnuole
colle loro scorrerie. Ma conosciuta la loro astuzia, si fece dare il solito giuramento
di fedeltà e furono rimessi.
23 dicembre 1719
Sbarcano alcune unità di cavalleria imperiali
provenienti dalla Calabria 23 decembre. Vennero da Calabria con alcune tartane
alcune truppe di cavalleria tudesca, dalle quali si fece il disbarco.
24-31 dicembre 1719
Mitigati i disagi dovuti alla carestia 24 sino al 31
decembre. In questi giorni, per l’occasione delle santissime feste della
nascita del nostro commun Redentore, si fecero a vedere in questo Porto e Marina
alcune felughe di Calabria cariche di vino, pomi, castagne e fagioli. E
disbarcate sul lido dette felughe, di subito si vendevano gli viveri. E per la
molta carestia puoteasi vendere il tutto a talento delli padroni con quello
prezzo che li piacea, senza ostacolo alcuno. Anzi, erano richiesti e pregati
che continuassero nella condotta di detti viveri, che avrebbero retrovato lo
prezzo a loro gusto.
Per somma bontà
di Dio in queste festività si ritrovò nell’archivio la porzione del pane
tassato per ognuno: almeno s’assaggiava il giorno a bocconi scarsamente. E se
le persone facoltose - o per aver la loro provisione in casa o col mezzo del proveditore
della provianda a conto della Regia Corte o con altra industria - teneano il
pane giornale, gli poveretti si doveano manutenere per necessità con due grana
di pane il giorno, tutte le volte bensì che s’ avessero presentato nell’archivio
al far dell’alba. Poiché se trascuravano o procrastinavano l’ora deputata - o
per non aver commodità di comprarlo per mancanza di denari o per altro loro
affare - restavano senz’aver per quel giorno il pane.
Non si possono
raccontarte quest’afflizioni e nemeno si credono: solo chi le vidde e
l’esperimentò li crede veridiche.
Malgrado la carestia vengono celebrati il Natale e
la festa del Patrono Santo Stefano, quest’ultima con tanto di processione.
Un’annotazione conferma che il testo qui trascritto non proviene dal manoscritto
orginale del Barca, ma da una copia Con tutta la penuaria e carestia in
città non si tralasciò dall’abitatori di questa a non sollennizarsi le feste natalizie,
accompagnati dagli devo[ti] signori comandanti ed officiali tudeschi, con
aversi tenuto cappella sollenne nel Duomo da questi spettabili signori giurati,
alla quale sovente intervenne esso signor comandante. Anzi, il di festivo del
nostro Padrono e Protettore Santo Stefano si fece la processione generale,
intervenendo tutto il clero coll’arciprete paroco e tutti gli religiosi de’ conventi
e compagnie e confraternite. E si vidde che intervennero al Vespro tutti gli
abitatori di qualunque condizione, così uomini come donne, non tanto per
osservare detta Matrice da più tempo diventata ospidale d’infermi, come [quanto piuttosto, ndr] per ringraziare
al Santo Padrono e Protettore. [Segue
nota, ndr: non si descrissero tutte l’azioni seguite in questo mese e parte del seguente gennaro
per essere state furate (rubate, ndr)
le notizie descritte].
1 gennaio 1720
Mancata distribuzione del pane a causa del riposo
dei fornai in occasione della solennità della circoncisione di Gesù. I poveri
si sfamano di conseguenza col pane di pessima qualità fornito dai soldati di
Carlo VI, che traggono dalla carestia una buona opportunità di guadagno. A primo gennaro
1720. Avevo determinato, scorso l’anno del 1719, desistermi di notare più
afflizioni patite in questa città. Ma fui forzato a compiacenza d’amici
descrivere alcune notizie più speciali, tralasciate l’altre non di molta
conseguenza.
Per essere il
primo dell’anno 1720 non comparse pane nell’archivij. E per tenersi gli poveri
con alcuna speme si publicò che il pane non si dispensò per mancanza delli
fornari, li quali - per riguardare per devozione il giorno festivo della Santissima
Circoncisione del nostro Redentore - non volsero travagliare. Ma da tutti
generalmente si conobbe che ciò si promulgò per non inasprirsi gli animi delli
poveri abitanti per la mancanza del pane. Onde fu necessario che molti s’avessero
ingerito, per togliersi la fame, far compra di pane di monizione dalli soldati
tudeschi. Li quali, per ottener alcun guadagno nella vendita del loro pane
giornale, si contentavano esitarlo, poiché procedea la vendita come ad essi
piacea. E ciò s’effettuava sovente, poiché, unendosi più soldati che facevano
in commune il magnare tenendo tra essi il rancio, si vendevano la metà del loro
pane e con l’altra se ne serviano per uso proprio e companatico. Maggiormente
osservando che li rendeva buon conto esitar il loro pane di malissima qualità e
condizione, anzi con alcun mal odore, a quello prezzo che da loro si disponea.
Poiché un pane nomato di cisca o francese di poch’onze, qual servia per gli
officiali, a grana dieci l’oncia e quell’ordinario, fatto per le truppe, col
medemo prezzo ed altre volte più. Almeno gli poveri si refocillavano con un
pezzo di pane di qualunque modo fosse stato fatto.
Il comandante della Piazza ordina ai comuni
dell’hinterand la fornitura di legname, fascine, orzo e paglia da destinare
alle truppe. Spiacevoli conseguenze per gli amministratori comunali
inadempienti
Non passava giorno, per tutto questo mese come per gli precedenti, che non
avessero venuto da Calabria provisioni di farina, paglia, orgio, fascine,
legname ed altri per servizio delle truppe, ripostandosi nelli magazeni
deputati nella Marina e senz’alcun lucro delli poveri abitatori di questa. Tanto
che si ritrovavano questi privi delle loro case, prese per abitazione e
dell’officiali e truppe. E pure per reposto delle proviande Regie. E nemeno si
potea discorrere. Conoscendosi non esser sufficienti le fascine, orgi, paglia e
legna che giornalmente venivano da Calabria - tanto per farsi il pane di
monizione come per servizio di dette truppe (le quali dovevano conseguire per
ogni posto la porzione di tanti legni deputata), ed inoltre per trattenimento
delli cavalli colla dispensa di tanta misura di paglia e d’orgio - perloché,
d’ordine di questo signor coronnello di Mastarimgherch, comandante, s’avviò un
espresso circolare a tutte le città e terre di questa Comarca - principiando
dalla parte di Levante, da Saponara, e finendo dalla parte di Ponente, sino a
Patti, numerandosi Saponara, Bauuso, Calvaruso, Rometta, Monforte, Rocca, San
Piero, Galteri, Succurso, Santa Lucia, Puzzo di Gotto, Castro Reale, Furnari,
Mazzarrà, Tripi, Novara ed altri convicini - che per servizio dell’arme di Sua
Maestà Cesarea Cattolica dovessero approntare, conducendoli in questa città,
molta quantità di legnami, fascine, orgio e paglia. Sormontando a più centinara
di cantara di dette legnami e fascine, orgi e paglie per ogn’una di dette terre
e città, come si osserva nella presente nota che appresso si vedrà cioè [in verità non vengono indicati pesi e quantitativi
nell’elenco seguente, ndr]:
Castro Reale
legna cantara,
fascine numero,
orgi tumina,
paglia cantara,
Puzzo di Gotto
legna cantara,
fascine numero,
orgi tumina,
paglia [cantara],
Santa Lucia
legna cantara,
fascine numero,
orgi tumina,
paglia cantara,
Rometta
legna cantara,
fascine numero,
orgi tumina,
paglia cantara,
[L’elenco continua, ma ancora senza pesi e
quantitativi, per] Saponara, Bauuso, Calvaruso, Rocca, Valdina, Monforte, Sanpiero, Galteri e Soccorso, Furnari, Tripi, Mazzarrà, Novara
Avendo
trascurato gli giurati delle sudette città e terre della Comarca di rimettere
sudette fascine, legnami, orgio e paglie - conforme s’aveano tassato - o per
loro trascuraggine o per necessità, poiché realmente in alcune di esse non si
ritrovavano né paglie né orgi, con tutto che s’avesse principiato dalla maggior
parte a condursi porzione di detta robba, il sudetto signor comandante replicò
altr’ordine più rigoroso per tutta questa Comarca con avere fatto venire in
questa tutti li giurati di dette città e terre, con averli fatto arrestare in
città. Bensì volea da principio che fossero stati trattenuti in Castello sino
che s’adempisse la consegna per intiero di detta provianda. E si tralascia
descriversi le querule lamentazioni di detti Giurati, non avendo nemeno luogo
per albergare la notte.
10 gennaio 1720
L’Autore ritiene superfluo tornare a riferire dei
disagi arrecati dalla carestia 10 gennaro. Stimo superfluo replicare
la carestia e la fame che si soffriva in questa città, poiché continuavano come
pria, anzi peggio. Puotendosi sinceramente affermare che se non avesse stato
per il pane di monizione che si vendea dalli soldati, come pure per le farine
più delle volte dal signor comandante somministrate per servizio di questo
publico, e specialmente per quelle date dal proveditore dell’arme cesaree a
molti e molti suoi confidenti ed amici, per certo s’avrebbero alcuni - specialmente
gli poveri - morti di pura necessità.
13 gennaio 1720
Militari sottraggono viveri dai magazzini per
venderli ai civili, ma vengono arrestati. Disertore austriaco condannato
all’impiccagione. 13
gennaro. Molti giorni a[d]dietro s’osservò nelli magazeni, nelli quali si
ritrovava repostata la provianda per le truppe cesaree, essersi derubbate molte
provisioni, come quantità di riso, carni salate, pelli di fiandra, pelli ed
altri. E fatta la diligenza, si vidde che alcuni soldati avevano commesso il
furto, con aver venduto il riso a molti paesani. Perloché furono posti
carcerati e [anche] molte persone di questa [città] per la compra fatta. E prese
l’informazioni dal signor comandante (con tutto che avessero confessato il
delitto) furono condennati al supplitio capitale. Come pure per retrovarsi un
altro soldato tudesco carcerato per aver tentato la fuga ed in essa preso: pure
fu condennato alla morte. Ed in questo giorno, condotti tutti al patibolo, il
desertore arrestato fu impiccato al solito e l’altri tre ladri solamente
patirono ad esser bacchettati con verghe da molti altri soldati per tre volte
l’uno; e doppo da nuovo posti carcerati.
Allo scopo di attenuare la morsa della carestia, il
giudice Guglielmo Colonna ordina di ritirare dalla Grecia un ingente
quantitativo di frumento da destinare a Milazzo Proseguendo la
carestia, con darsi il pane all’archivio in poca quantità, dal signor Don
Guglielmo Colonna, qual si ritrovava in Messina da Giudice Civile e Criminale
del Tribunale della Regia Gran Corte, si
pretese inviare salme quattrocento di formento in questa città per servizio, in
quanto alla metà per questo publico e l’altra metà per li forastieri. Ed
infatti s’inviò doppo sopra un vassello detto formento. E benché fosse stato
dalla Morea [antico toponimo del Peloponneso, ndr] e molto mescolato,
nientedimeno, repostato in magazeni per panizzarsi per il publico, si vendea a
tarì dodeci il tumulo e per li forastieri di più prezzo. Almeno restò un puoco
consolata questa città.
16 gennaio 1720
Due disertori dell’esercito imperiale catturati e
condannati a morte
16 gennaro. Gli giorni scorsi furono condotti in questa città due soldati
tudeschi, li quali - avendo desertato dalle loro truppe mentre si ritrovavano
vicino la città di Messina, per essere sprattici del paese, dovendo prendere la
strada verso ove risiedevano gli spagnuoli - per evitare il pericolo di non
essere presi s’instradarono verso la terra della Rocca nella montagna, ove si
credevano esser liberi. Ma per loro disavventura, condottosi in quella terra da
un fameglio d’un capitano tudesco per suoi affari, furono conosciuti e tanto
s’adoprò che li fece catturare. Onde furono condotti in questa città
prigionieri. E tenutosi conseglio di guerra dalli ministri a ciò deputati, si
condennarono alla morte. Ed in questo giorno portati - circondati con molte
truppe della loro nazione e col padre cappellano (qual assistea per raccordarli
al ben morire) - al patibolo nel Purracchito, fori la città. Furono impiccati
ad un legno, non raccontando il modo della loro morte tanto per averlo
descritto in altre parti, come per esser molto crudele. Sembra forse hiperbole l’invenzione
di levar la vita alli condannati, ancorché giustamente alla morte.
20 gennaio 1720
Passaggio dal Porto dell’armata imperiale diretta a Trapani
per mettere in fuga gli Spagnoli 20 gennaro. Ben mattino s’osservarono
sopra il Capo di Raisicolmo molte navi, vasselli, tartane ed altre imbarcazioni,
approssimandosi verso questo Capo. E la sera si redussero nel Porto. Si seppe
esser l’armata tudesca uscita dalla città di Messina, nella quale si ritrovava
il signor generale de Mercij come comandante. Asserendosi ritrovarsi da cinque
in seimila soldati con molte cavallerie, volendo proseguire il camino per la
città di Trapani per debellare gli Spagnuoli. Si numerarono dett’imbarcazioni e
si vidde esser sessantadue tra grandi e piccole, oltre le filughe. E di più
esistea un regimento di savoiardi e piemontesi. E benché alcuni officiali
avessero disceso in terra, il signor generale de Mercij non volse scendere. E la
notte tutta sudett’Armata fece partenza per Ponente.
Particolare dell'accampamento spagnolo
22 gennaio 1720
Si dispone il raduno in contrada Belvedere della
milizia allo scopo di organizzare una spedizione ai danni dei civili che
parteggiano per il nemico 22 gennaro. Hebbe commissione il signor Don Nicolò
Cumbo, come sargente maggiore di Patti, con ordine espresso di Sua Eccellenza,
che dovesse uscire nella Comarca accompagnato da tutta la milizia d’essa
Comarca. Ed escerà milizia. Come pure da tutti li
capitani delle città e terre della
medema Comarca, per discacciare gli fautori paesani delli Spagnuoli. [Ciò] per
la notizia avuta che verso Patti e parti convicine si trattenessero molti
paesani coll’arme alle mani a devozione delli Spagnuoli, specialmente alcuni
condotti da Giorgio Licari. Ed infatti, d’ordine di questo signor comandante
della Piazza, con l’intelligenza del detto signor di Cumbo, si raguagliarono
tutti li capitani di dette terre e città, come pure che da questi s’intimassero
tutte le persone di detta milizia ed extramilizia che stassero previsti per
farsi la partenza unitamente. Ritrovandosi pure in ordine molte cavallerie
tudesche per accompagnarsi col detto signor di Cumbo, sargento maggiore. E
benché avessero concorso molti disturbi da parte delli giurati di dette terre e
città, coll’asserzione non aver capitale le loro università [comuni, ndr] per il vitto quotidiano di
detti soldati, anzi molti volendosi scusare con li pretesti o sussistenti o
frustratorij, nondimeno fu
necessario obedire, avendo avuto l’ordine di ritrovarsi tutti approntati nel
fegho di Belvedere per determinarsi da quel luogo la partenza per le parti più
a proposito. E questa mattina, postosi in ordine il signor Cumbo, mentre stava
per mettersi in camino col suo equipaggio, venne la notizia veridica che nella
città di Puzzo di Gotto e parti convicine si ritrovavano molte e molte truppe
delli spagnuoli. Perloché si sospese la partenza, avendosi comandato agli
capitani di dette città e terre con le milizie radunate a Belvedere che si
retirassero, stando bensì previsti a nuov’ordine. Anzi, alcuni di detti
capitani, per esser di questa città, vedendo passar molto tempo e non comparire
il detto signor di Cumbo, sargento maggiore, vennero in questa città e
ricevettero di presenza la commissione di star sempre allestiti a nuovo ordine.
23 gennaio 1720
23 gennaro.
Partirono da questa alcune truppe tudesche di cavallo per questa Comarca per
indagare gli deportamenti delli Spagnuoli. E per prendersi le resoluzioni
congrue.
24 gennaio 1720
Le navi adibite al trasporto delle truppe imperiali
costrette dal vento contrario a
tornare indietro 24 gennaro. Mentre si credea che l’armata fosse pervenuta
al luogo deputato, impensatamente si vidde comparire sopra il Capo d’Orlando,
indirizzandosi per questa città per aver voltato il tempo da Maestro e Ponente.
Ed infatti la sera approdò tutta in questo Porto. Bensì la nave nomata L’Almirante, ove si ritrovava imbarcato
il signor generale de Mercij, non retornò. Affermandosi che la detta armata
avea navigato sino a Termini, ma sovragionto il vento contrario fu forzata
ritornare.
25 gennaio 1720
25 gennaro. Si
pose in ordine di nuovo l’armata navale, che si ritrovava nel porto, di far la
partenza per Ponente, sembrandoli favorevole il vento.
26 gennaio 1720
Disposto dalle autorità spagnole l’arresto di Girolamo
Calì per il mancato pagamento delle bolle della Santa Crociata 26 gennaro. Il
signor Nicolò Cumbo, sargente maggiore, già era posto in ordine per far la
partenza, volendo rendersi obediente agli ordini di Sua Eccellenza [il viceré, ndr], ma si trattenne poiché
sovragiunse notizia che in Puzzo di Gotto avessero dalla Comarca disceso più
truppe spagnuole per arrestare a Gerolamo Calì, volendo seco condurlo se non
sodisfacea il diritto delle bolle della Santa Croceata, dispensate l’anno
scorso di loro ordine in quella città. Quando peraltro, avuto il Calì la
notizia, si nascose. Pretendevano gli spagnuoli l’esigenza [la riscossione, ndr] dell’elemosina di
quelle bolle della Santa Croceata, da essi nell’anno passato dispensate per
tutta la Comarca. Ma tolto l’assedio e retiratosi fuggitivi essi Spagnuoli, da
Sua Eccellenza si previdde doversi sodisfare l’elemosina sudetta. Perloché
venne ordine al signor Don Marcello Domenico D’Amico, come pro secreto regio e credenziario,
che s’esiggesse dett’elemosina. Ed infatti da questo si recuperarono tutti gli
debiti remasti per tutta la Comarca, con aversi depositato in tavola di
Messina, perloché gli Spagnuoli pure volevano dett’esigenza. E perciò
pretendevano dal Calì tal esigenza.
1-2 febbraio 1720
Per ordine viceregio si torna a vendere il pane Primo febraio a
2 febraro. Con molto contento e consuolo di tutto questo publico comparì il
pane alle piazze, al peso di onze vent’una per otto grana o onze diece e mezza
per quattro grana. Si publicò che avesse concorso ordine espresso da Sua
Eccellenza: mi rimetto alla verità.
3 febbraio 1720
L’armata tenta la partenza via mare per ben quattro
volte, mentre il generale conte di Mercy riesce ad approdare - malgrado le
avverse condizioni atmosferiche - nel porto di Trapani. Giungono da Napoli e dalla
Calabria alcune imbarcazioni cariche di viveri 3 febraro. L’armata
navale partì e retornò ed oggi ha partito e retornato ben tre volte. E per
insino li nove di questo mese si ritrova in questo porto. Ha parso fatalità
molto sinistra, macerandosi gli cavalli in barca, oltre la morte seguita di
molti di essi. E s’ebbe notizia veridica che il signor generale de Mercij,
nella prima partenza, per essere sopra una nave ben corredata, nonostante il
vento contrario seguitò, avesse forzatamente entrato nel porto di Trapani
senz’alcun danno, con tutto che tutte l’altre imbarcazioni avessero retornato
(come si scrisse). S’ebbe notizia che il sacerdote Don Pietro Alosi, qual mesi
ad[d]ietro andò in Napoli per viveri (come si descrisse), abbia approdato in
salvo nel Porto di Messina. Ed oggi si conferì la tartana in questa Marina, con
aver condotto quantità di riso e molte botti di vino, come pure alcuni cantara
di frumenti. Ed infatti detto riso fu dispensato alli mercieri sopra tarì uno
il rotolo; e da questi si vende a tarì uno e grana quattro per detto rotolo.
Vennero da Calabria alcune felughe con molte stipe di arenghi, carni salate,
riso ed altri viveri. Almeno si ristorano questi poveri abitatori avendo robba
da mangiare.
In questo
Carnevale almeno s’ha retrovato per li macelli qualche puoco di carne di porco
di buona qualità a ragione di tarì uno e grana sei il rotolo, ma quella di bue e[d
anche] di mala condizione a grana ventiquattro il rotolo.
4 febbraio 1720
4 febraro.
Vennero le bolle della Santissima Cruciata in questa città. E dalli signori giurati
ed officiali spirituali già s’assignarono li dispensieri.
5 febbraio 1720
Le avverse condizioni atmosferiche costringono l’armata
a rimanere in porto. Il dottore Antonino Cumbo mette a disposizione dei
cittadini un cospicuo quantitativo di farina 5 febraro. Hanno corso malissimi
tempi così di terra, come di mare, con freddi molt’eccessivi, pioggie e nevi,
venti furiosi. Tanto che hanno sembrato insoffribili. E nemeno appare di
placarsi. S’attribuisce il tutto per ritrovarsi l’armata in questo porto ed
invero sembra fatalità. Dal signor dottor Don Antonino Cumbo si fece offerta a
questi spettabili signori giurati di voler approntare per servizio di questo
publico trecento cantara di farine da Calabria, mercantibili e recettibili, a
ragione di [segue lacuna nella copia, ndr]
il cantaro, che sormonterà a tarì 11.7.3 circa lo tumolo. Ed infatti si
ricevette l’offerta.
8 febbraio 1720
Il maltempo, oltre ad impedire la partenza dell’armata,
danneggia abitazioni
ed imbarcazioni 8 febraro. Da più
giorni ha continuato un vento fierissimo da libeccio con freddi eccessivi. Ma
in questo [giorno] eccesse in tal modo che si credea perirsi. Poiché nemmeno si
puotea star sicuramente nelle case per il rimbombo del vento. E non restarono
sopra dette case canali, volando per l’aria. E molte persone che si ritrovavano
per le strade furono costrette trattenersi altrimenti avrebbero precipitato per
la vehemenza del vento. Anzi, alcune case che si ritrovavano sconquassate per
le bombe avute e palle di cannoni disparate dalli Spagnuoli in tempo
dell’assedio sofferto, dell’intutto rovinarono. L’armata navale che si
ritrovava nel porto, con tutto che avesse previsto detto tempo, gettando tutte
l’ancore e con capi attaccati nella ripa, non perciò restò esente di non
soffrir alcun danno. Poiché molte tartane restarono fracassate nelli spironi,
altre con l’alberi rotti e spezzati, credendosi o di sommergersi o di non
puoter tenere su l’ancore in mare e nelle gomini legate in terra. E s’ascrisse
a miracolo che, avendosi congiunturato il maltempo tutte le navi e tartane
grandi e picciole, si retirarono vicino il lido. Che altrimenti fossero state
come pria, molte e molte s’avrebbero disfatte nell’altra ripa o corso per
Calabria.
10 febbraio 1720
La Piana continua a subire razzie e devastazioni 10 febraio. Ben
mattino uscirono da 400 soldati dell’armata navale con alcun officiali in
questo territorio e Piana per far legna per detta armata. Perloché avendo
ricorso gli signori giurati a questo signor comandante per dar remedio che non
si devastasse più detta Piana, giac[c]hé si ritrovava consumata, ebbero per
risposta il non puoter reparare. Onde detti soldati, con tutto che si
protestassero non aver intenzione di tagliar alberi fruttiferi, nondimeno
restarono disfatti molti piedi d’alberi di pirare, ficare, granatare [melograni, ndr], subore [subbàri, sorbi, ndr] ed alcuni celsi. Anzi,
tagliarono molti piedi di pergole, di viti e di celsi. E di più si processe con
alcun rigore contro quei villani che si ritrovavano in alcuni luoghi, con
averli tolto quello mobile che aveano, ancorché fosse stato di puoco valore. Ed
il peggio fu che, tagliati gli alberi, si prendevano quei tronchi di legna che
puotevano condur in collo, lasciando il remanente in terra. Ed inoltre, lamentandosi
gli poveri abitatori che avrebbero approntato molti carri con bovi per condursi
all’armata detti legni, pure che si facessero fuori territorio ove si ritrovavano
molti alberi infruttuosi e feghi [fuedi,
ndr], non fu possibile ciò ottenersi, col pretesto che le truppe non volevano
caminar molti miglia per venirli fatigoso.
11 febbraio 1720
I giurati e molti aristocratici ricorrono al
generale Vuattendon per impedire l’ulteriore devastazione della Piana e le
angherie ai danni dei suoi abitanti già vittime di tante sofferenze 11 febraio. In
questo giorno molt’altre truppe dell’armata continuarono l’istesso, bensì con
alcun riguardo. Ma non perciò si puotevano evitar l’inconvenienze delli soldati.
Ma conoscendo gli signori giurati e molti gentiluomini che s’avrebbe senz’alcun
dub[b]io devastata tutta la Piana, colle scorrerie di tante truppe, ricorsero
al signor generale Vuattendon - qual presidea in dett’armata - ch’avesse
considerazione agli molti patimenti sofferti per tutt’il tempo della guerra. Con
aversi consumato tutt’il territorio e la devastazione di tutte l’abitazioni in
città per le cannonate e bombe. E di più aversi, per ordine del comandante,
condotto in città più carri di fascine per li forni a servizio delle truppe di
sua Maestà Cesarea e Cattolica. Ed inoltre aver voluto detto signor comandante
più carrate di canne dalli canneti dell’abitatori per farsi le trinciere fuori
la città. Il che avendo inteso detto signor generale Vuattendon, nell’istante
ordinò che s’inviassero persone a ritrovar dette truppe, affinché non
devastassero detta Piana. E se necessitavano di legna, andassero fuori
territorio. Anzi, s’alterò contro il signor comandante che avesse vessato gli
cittadini per l’appronto fatto di fascine e di canne; e non essere stato mai
sua intenzione che patissero più questi cittadini, giac[c]hè si ritrovavano
molto afflitti. Onde, notiziati gli officiali andati con dette truppe di questo
ordine del signor generale, si resero obedienti.
Si riuniscono le truppe imperiali, scortate dal
sergente maggiore della milizia di Patti, l’aristocratico Nicolò Cumbo, per mettere
in fuga gli Spagnoli che scorazzano nei comuni del circondario. Ma ad essere
messe in fuga furono invece proprio le truppe imperiali Avendosi avuto
notizia che gli Spagnuoli scorreano per questa Comarca, si determinò dal detto
signor comandante della Piazza - inteso di tutto il signor generale Vuattendon -
che uscissero in traccia di quelli per fugarli. Ed infatti s’unirono da 150 ussari
e 30 soldati di cavallo del regimento del generale Roma con molt’altre truppe
di fanteria al numero di 500, con alcuni coronelli e loro tenenti ed altri
officiali, parte di quelli che si ritrovavano in questa città di presidio e
parte dell’armata qual si ritrova imbarcata e trattenuta nel porto per il maltempo.
Scortati tutti dal signor Don Nicolò Cumbo, sargento maggiore della Milizia della
città di Patti, ed all’alba usciti, s’instradarono per la terra della Nogara [Novara di Sicilia, ndr], ove s’intendea
esservi di presidio da cento soldati spagnuoli. Con aversi dato l’ordine per la
Comarca convicina, cioè al Castro Reale, che la milizia dovesse seguire sudette
truppe. Ed essendo sotto detta terra di Novara, volendosi informare degli
andamenti delli Spagnuoli, si viddero assaltati e da quelli e dalli paesani di
quella terra con molte scopettate. Tanto che restarono feriti due soldati
tudeschi di cavallo, avendoli disparato più di 150 schioppi. Perlochè furono
forzati retrocedere retirandosi, nel qual tempo si posero a gridare quei
villani: «Viva Spagna», ed ingiuriando agli tedeschi «ribelli e turchi». Il
retornarsene questi fu necessario. Poiché, ritrovandosi quella terra
molt’eminente con una salita di due miglia molto scozzesa [scoscesa, ndr], anzi con doversi ascendere ad uno ad uno con una
strada inaccessibile, non si puotè far differente. Tanto più che le truppe
erano di puoco numero e tutte le volte che si dovea sorprendere detta terra
necessitavano più soldati. Anzi tentarsi e per questa e per altra strada benché
più lontana, per la quale s’uscia dalla parte di sopra di detta terra, da dove
puotevano andar le truppe squadronate. E così avrebbe stata la terra posta nel
mezzo. E così almeno necessitavano da tremila soldati, anzi più, per farsi
alcun progresso. Onde, nel retorno fatto alto nella fiumara di Mazzarrà e sotto
la terra di Tripi, processero da soldati al solito senz’aversi possuto far
differente. E, fra l’altri, retrovati cinque muli del reverendo sacerdote Don
Ludovico Paratore di Tripi, restarono presi.
12 febbraio 1720
I proprietari terrieri della Piana, previo consenso
dell’amministrazione comunale, approntano alcuni carri per far raccogliere la
legna
ai soldati 12 febraio. Dalli padroni
delle possessioni della Piana, consentendo gli spettabili signori giurati,
s’approntarono molti carri con bovi per condursi li legna che faceano gli
soldati. Anzi, furono deputati li signori reverendo sacerdote Don Onofrio Proto,
luogotenente d’Arciprete, Don Cesare D’amico, Don Giovanni Cirino e Don
Francesco Passalacqua, gentiluomini, con altri quattro cittadini. Li quali - posti
a cavallo - s’unirono con dette truppe, conferendosi fuori territorio per far
legna, avendo scorso da miglia diece in questa Comarca con molto loro fastidio
e fatiga, solo per evitarsi gli danni di questo territorio. E la sera si
retornò con quantità di legna.
Gli amministratori municipali di Novara inviano un
messo con una lettera
indirizzata al comandante di Milazzo, nella
quale dichiarano la loro volontà di sottomettersi alla corona d’Austria.
Chiedono però il ritiro degli Spagnoli dal proprio territorio Retornarono
tutte sudette truppe con aver raccontato il successo [quanto accaduto, ndr]. E s’ebbe notizia che gli Nogaresi con li
Spagnuoli presero molt’ardire per la retornata delli Tudeschi. Nel medemo
giorno venne dagli giurati di detta terra di Nogara un messo con una lettera
diretta a questo signor comandante, asserendo che avrebbero venuto
all’obedienza, pregando agli Spagnuoli che si retirassero dalla loro terra. E
se non avrebbero condesceso questi alle loro brame giustificate, s’avrebbe
processo con quei mezzi che stimarebbero profigui per la loro quiete. Di più il
sudetto di Paratore inviò un corriero alli suoi amici per recuperare li muli
predati.
Omicidio di Giuseppe Grandi alias Santoro S’intese la
morte disgraziata di Giuseppe Grandi alias Santoro, seguita a 10 del detto mese
febraro fori le porte della città di Messina, nella contrada di Bordonaro, con
essere stat’ucciso con tre scopettate. Questi fu di questa [città], persona
plebea, ma di alcun tratto differente dalla sua condizione. Per molt’anni servì
d’algozino delli comandanti della Piazza, pure in tempo che governavano gli
Spagnuoli. E ritrovandosi il signor Don Luca Spinola - ed esercitando tal
mistiero pure in tempo che reggeva la Piazza il signor baron Missegla da governadore
per il Re Vittorio Amedeo - intendendo che nell’assedio dalli Spagnuoli si
ritrovava di passaggio detto signor di Spinola, non essendo sin allora
intercettata la communicazione dalli abitatori di questa, uscì e si fece a
conosciere da questo personaggio, con aver avuto le sue convenienze. E trasferitosi
con esso sin a Messina, si trattenne alla sua servitù. Ma scampato l’esercito spagnuolo,
e doppo entrate l’arme di sua Maestà Cesarea e Cattolica nella città di
Messina, questi col suo modo ed attività pervenne ad introdursi col signor
generale Mercij, dal quale ottenne essere stato eletto per capitan di notte di
quella città, oltre molt’altre grazie ottenute: fra l’altre, d’un officio
vitalizio per un suo figlio di valsente di onze 900. E per aver seguito in
detta città un eccesso da due fuoritani, fu esso inviato con molti compagni e
sbirraglia col caporale, tutti messinesi, in detto quartiero di Bordonaro per
farsi il repertorio di tutto quel mobile che si trovava in casa delli
delinquenti. E perché gli altri, per esser compatrioti, s’adopravano molto
tiepidi nel servizio della giustizia, quando peraltro questo incalzava con ogni
caldezza, il che osservato dalli delinquenti, posti al passo proporzionato, con
tre scopettate restò il poveretto ucciso. E nell’avviso venuto di tal omicidio
si discorse aver successo per emulazione, poiché se avesse stato compatrioto
come gli altri al certo non avrebbe il misfatto seguito.
13 febbraio 1720
Probabile armistizio di due mesi a cui far seguire
la pace
13 febraro. Si publicò in questa [città] che il signor generale Vallas da
Messina avesse scritto a questo signor generale Vuattendon (qual ancora si
ritrova con l’armata navale in questo porto per il cattivo tempo) esservi
notizia di farsi un armestizio di due mesi per seguir doppo la pace. E benché
da molti giorni s’avesse publicato in questa, che nella città di Messina si
disse che avea venuto ordine che si stimasse la republica veneziana per nemica
di sua Maestà Cesarea e Cattolica, nondimeno non si verificò. Poiché pure
s’avrebbe scritto al generale Vuattendon dal signor generale Vallas questa
notizia.
Muore Francesco Munafò: lascia tutti i suoi beni in
eredità al convento dei Carmelitani per assistere i bisognosi. L’Autore ne
descrive dettagliatamente il testamento agli atti di notar De Luca Morì Francesco
Munafò. Questi fu persona di condizione popolana. E con tutto che fosse stato
pover’uomo s’adoprò da principio a vender in un angolo d’una casa a piggione alcuni
puochi merci. Ma col tempo, aiutato dalla fortuna e colla sua industria,
pervenne a farsi molto commodo ed in contanti ed in beni stabili, sormontando
al possesso di più migliara di scudi. Infine, doppo aver fatto più disposizioni
per molti testamenti, fece l’ultimo ad otto del gennaro scorso, nel quale, per
l’atti di notar Giovan Battista di Luca, lasciò erede universale di tutta la
sua eredità al convento del Carmine di questa città, doppo la morte d’una sua
sorella monica nominata suoro Giuseppa dell’istessa religione. Con dover esser
questa mera usufruttuaria per il suo bisogno tantum mentre vivesse. Ed inoltre
legò onze duemila, cioè mille al detto convento del Carmine, onze cinquecento a
quello di San Domenico ed altretante a quello di San Francesco di Paola, con
obligo di celebrarsi per ogn’uno di essi conventi una messa la settimana. Come
pure che si deputassero quattro Padri per ogni convento affinché da questi si
dovess’assistere nell’agonia di qualunque abitatore di questa [città] di
qualsiasi condizione, per far una buona morte. E demostrandosi contumace alcun
convento, vada il legato al Clero per eseguire l’istesso. E tutte le volte che
pure da questi non s’adempisse, il sudetto legato vada al sudetto convento del
Carmine per celebrazione di tante messe annuali per quanto renderanno ogn’anno
le sudette somme d’impiegarsi in beni stabili o rendite. Con aversi fatto
distinzione che ogni convento dovess’assistere per una parrocchia: per quello
di San Domenico quella della Matrice chiesa; per il convento di San Francesco
di Paola quella di Giesù e Maria la Vecchia; e per l’altro del Carmine quella
di San Giacomo. Per certo che il sudetto di Munafò fu persona molto decorata
senz’aversi mai congionto in matrimonio. E fece quest’opra pia per benefizio
dell’anime di tutta questa città per morir bene. E perciò m’ho mosso a notar
quest’azione nelle presenti relazioni seguite in questo tempo.
Giungono tre disertori spagnoli Vennero in
questa città tre desertori spagnuoli soldati di fanteria. Attestarono aversene
fuggito dalle loro truppe rimaste in questa Comarca, vicino la terra della
Novara. E che molto pericolarono per il camino, avendo timore di non esser
sorpresi dalli paesani.
14 febbraio 1720
Rissa tra militari per mancanza di paglia per i
cavalli. Un colpo di cannone annuncia l’imminente partenza dell’armata navale,
smentita dall’improvviso sopraggiungere del maltempo, attribuito a stregoneria 14 febraro. Per
ritrovarsi in questa [città] l’armata navale con molti cavalli (oltre quei che
sono di presidio nella Piazza) con molta scarsezza di paglia, non se ne ritrovando
nemeno nelli magazini ove sta repostata la Provianda di sua Maestà Cesarea e
Cattolica, in questo giorno seguì una rissa tra molti soldati Ussari di
cavalleria con altri granatieri di differenti regimenti per causa che vennero
dalla Comarca e dalla terra di Galteri non più di tre cantara di paglia. E con
tutto che fosse stata d’orgio ed ermano, nondimeno questi la volevano per forza
dal Proveditore. Ed interpostosi un officiale per non far uscire detta paglia
dal magazeno dove stava repostata, non fu possibile placarsi. Anzi, venuti
all’armi, perdendo il rispetto al sudett’officiale, fu vuopo che detta paglia
si divedesse alli sudetti soldati. E molto si temea che - necessitando
dett’armata o viveri o altro - non si procedesse ad alcun sinistro accidente
col discapito delli poveri cittadini.
A Vespro si
disparò un tiro di cannone per segno della partita dell’armata. Tanto che tutti
gli signori comandanti e generali ed officiali si ritirarono nelle lor
imbarcazioni deputate, dormendo la notte in mare. E mentre si credeva che
senz’alcuna difficoltà avesse seguita la partenza - perloché tutti gli
cittadini restarono consolatissimi tanto per lo slogarsi dalle loro case molti
e molti officiali, come per alleviarsi la carestia nella città - la
nott’istessa si levò da nuovo un fierissimo vento di Libeccio con fortuna in
mare e con quantità di pioggia, tuoni e saette. Onde s’attestava da molti dell’armata
sudetta esservi stata fatta qualche stregaria affinché quella non
s’allontanasse da questo porto.
Continua la carestia In questa città
molto persistea la carestia d’ogni vivere, tanto per la molta quantità di
soldati dell’armata, oltre di quei che si ritrovavano di presidio, come per non
esservi communicazione conforme pria, e per terra dalla Comarca e per mare dal
Regno di Napoli e Calabria, ed altre parti. Onde quella puoca vettovaglia che
per accidente si conducea era comprata a prezzo molto esorbitante. E, doppo,
revenduta molto più. E cossì gli poveri erano redotti a miseria insoffribile,
lucrandosi solamente gli revenditori. E perciò evidentemente si riconoscette
che tutti li patimenti sofferti da questa povera città fossero stati processi
dal Cielo per le gravi colpe dell’abitatori. E con tutto che apparesse che
d’ognuno s’avesse atteso a placar l’ira divina, giustamente sdegnata, nondimeno
sieguivano gli flagelli. E procurarono gli signori spettabili giurati che
s’adoprassero tutti quei esercizij spirituali, li quali innanzi la guerra
seguita s’esercitavano. Pure nell’esposizione del Santissimo Sacramento dell’altare
col circolo per tutti gli conventi ed altre chiese a spese dell’università [Comune, ndr]. Anzi, attesero che si
facessero gli quaresimali e nel Duomo e nella parocchiale chiesa di San
Giacomo, con aversi deputato per quello il Padre Fra Saverio Calcagno e per
questa il Padre Fra [Segue lacuna nella
copia, ndr] Cappone, tutti e due dell’ordine de’ Padri Paolini ed entrambi
di questa città. E già in questo giorno principiò il Padre Calcagno a farsi a
sentire nel Duomo.
Le truppe dell’armata continuano a tagliare gli
alberi da frutto ed a saccheggiare il circondario Questa mattina
uscirono dalla città molte truppe dell’armata navale per legna nel territorio.
Ed il peggio si è che, tagliato un albero fruttifero, si prendevano alcuni
tronchi di dett’albero che colla loro commodità potevano portare, lasciando il
rimanente in abbandono in terra. Tanto che si devastano molti piedi di
dett’alberi con il grave interesse delli poveri padroni e senza molto profitto
di dette truppe. E di più le medeme tutto quello [che] ritrovavano, lasciando
in abbandono li legna, si caricavano di molta robba. E si disse che nella
marina di Fondachello e Spadafora fu ritrovato un magazeno con quaranta botti
di vino piene: nell’istante furono vuote, con aversi condotto [trasportato, ndr] la minima parte,
restando l’altra magiore - per più commodità assaggiata a sorsi - nelli loro stomachi.
E pure non si puotè reparare, non potendosi dar metodo a tante truppe mal
patite per mancanza di viveri, oltre l’incommodità sofferta sopra
l’imbarcazioni per tanto lungo tempo.
Nessun commento:
Posta un commento